SOSTENITORE DELLA FOLGORE

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venerdì 7 agosto 2015

Secondo iustizia



nnanzitutto, manca una definizione riconosciuta di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto. L’intera storia dell’umanità è una lotta per affermare concezioni della giustizia diverse e perfino antitetiche, “vere” solo per coloro che le professano. Per lo più si è venuti a questo: che giusto è ciò che corrisponde alla propria visione della vita in società (la giustizia, si dice, sta necessariamente in una relazione sociale), ingiusto ciò che la contraddice. Così però la giustizia rinuncia alla sua autonomia e si perde negli ideali o nelle ideologie o nelle utopie. Si riduce a un artificio retorico per valorizzare questa o quella visione politica: la giustizia proletaria, la giustizia etnica o voelkisch del nazismo, la giustizia borghese ecc., ciascuna presentata come giustizia autentica, alternativa alle altrui contraffazioni della giustizia...


La giustizia è davvero solo una parola vuota; o, se non lo è, è solo una maschera?
Noi avvertiamo profondamente che la fame e la sete di giustizia di cui per tutti e non solo per i credenti in Cristo, parla il Sermone del Monte(Mt 5,6) non sono parole vuote né, tanto meno, un incitamento alla divisione in nome di ideologie politiche. Spenta del tutto la giustizia o, meglio, la speranza di giustizia – e non solo l’egoistica speranza di giustizia per se stessi – l’esistenza stessa è scossa dalle sue fondamenta. Remota iustitia, la depressione, lo sconvolgimento mentale e il suicidio sono le concretissime conseguenze che attendono gli spiriti sensibili di fronte al sentimento di giustizia irrimediabilmente spezzato. La speranza di giustizia è una condizione di esistenza e questa condizione viene meno non solo laddove esiste oppressione... ma anche per rassegnazione, atrofia, stordimento, nichilismo morali...
La giustizia è remota non solo quando ogni possibilità di perseguirla è spenta ma anche quando, al contrario, la libertà (come assenza di costrizione) è assicurata ma non si sa a che cosa applicarla, a che cosa finalizzarla... Giustizia e libertà, come esigenze esistenziali, mostrano così di implicarsi, di non poter fare a meno l’una dell’altra: non c’è giustizia senza libertà di perseguirla; non c’è libertà senza una giustizia che meriti di essere perseguita. Ma allora? Siamo dunque portati dalla nostra stessa natura a desiderare ciò che non esiste? Non sarebbe anche questa una terribile condanna, una grande ingiustizia, la mancanza di una condizione per esistere? Non c’è altro scampo se non quello di non vedere e quindi di ottundere la sensibilità, ciò cui, in verità, i poteri ideologici che governano le coscienze ci invitano quotidianamente a fare?
Forse l’origine del fallimento è nel carattere speculativo dei tentativi di comprendere la giustizia: speculativo, sia nel senso di rispecchiamento intellettuale di qualche cosa che sta fuori di noi – ciò che è giusto – sia nel senso di ragionamento che costruisce da sé i suoi oggetti – le idee di giustizia. Ma la giustizia non è né una cosa né l’altra: non è fuori di noi, siccome è detto infatti che la giustizia è una virtù, e non è semplicemente un’idea, siccome suggerisce l’espressione “sentimento di giustizia”. In una delle Lettere (VII, 344), Platone afferma che è impossibile definire la giustizia in astratto: lo può fare, in concreto, solo il giusto poiché egli ha una “natura conforme alla giustizia”. Il che, a meno che sia una deliberata tautologia, squalifica d’un colpo solo ogni impostazione puramente speculativa.
Forse possiamo dire che la giustizia è un’esigenza che postula un’esperienza personale: l’esperienza, per l’appunto, della giustizia, o meglio, dell’aspirazione alla giustizia che nasce dall’esperienza dell’ingiustizia e dal dolore che ne deriva. Se non disponiamo di una formula della giustizia che
possa mettere tutti d’accordo, molto più facile è convenire – a meno che non si abbia a che fare con coscienze deviate – nel percepire l’ingiustizia insita nello sfruttamento, nella reificazione degli esseri umani da parte di altri esseri umani. Ed è più facile non vederla o rimuoverla come cosa remota piuttosto che rimanere insensibili, una volta che si sia entrati con essa in un contatto immediato.
Le divergenze nascono subito dopo, quando si tratta di stabilire quali sono le strategie efficaci da perseguire. Questo è, propriamente, il momento delle determinazioni politiche e il fatto che esse riguardino il momento immediatamente successivo può forse fare fondatamente pensare che i discorsi sulla giustizia – se non li si vuole confondere integralmente con i discorsi sulla politica – attengono a un momento precedente e fondativo di ogni politica. O, se così si vuole dire, l’ingiustizia non può essere il mezzo di nessuna politica, per quanto alto e nobile sia l’ideale che questa persegua.
E ciò significa che – per riportarci ancora alla questione del dolore inferto all’innocente come prezzo dell’armonia universale – nessuna politica è conforme a giustizia se il perseguimento del suo fine comporta il prezzo dell’ingiustizia, del male causato all’innocente. Quest’affermazione contrasta evidentemente con le tante filosofie della storia orientate ai grandi orizzonti del progresso dell’umanità ma insensibili alle sorti personali dei milioni di milioni di esseri umani e pone interrogativi che l’odierna politica di intervento militare per fini umanitari non può eludere.
Contrasta, altrettanto evidentemente, con il corso della storia che ha sempre posposto le sofferenze degli innocenti ai progetti di potenza di regni e repubbliche, potentati economici e religiosi. La sensibilità contemporanea però sta forse cambiando, a giudicare per esempio dalle discussioni circa l’uso della forza, sia pure per fini legittimi, da parte degli Stati, qualora ci vadano di mezzo popolazioni inermi e innocenti.
Resta peraltro aperta, particolarmente ora che il principio tende ad affermarsi, la questione tutt’altro chiara di come definire l’innocente e come, conseguentemente, il dolore ingiustificato... il benessere di cui popoli interi godono al costo delle inaccettabili condizioni di vita di altre popolazioni è davvero incolpevole? E se non lo è, esistono gradi diversi di responsabilità che hanno da essere distinti? Interrogativi questi che si presentano con urgenza a noi, i privilegiati della terra, la cui colpa e la cui ingiustizia stanno nell’insensibilità e nell’omissione inavvertita: il cancro morale diffuso tra persone comuni che è la condizione “morale” di esistenza delle società opulente.
Gli spiriti euclidei, quelli del “due più due”, non saranno soddisfatti di questo spostamento dal campo delle definizioni della giustizia a quello dell’esperienza dell’ingiustizia. Vorranno saperne di più e soprattutto vederci più chiaro. Vorranno trovare una definizione che faccia riferimento a regole esterne e obiettive, idonee a “calcolare” le condotte riconducendone alcune nel campo del giusto e altre, nel campo dell’ingiusto, del bene e del male.
In effetti questa è un’idea diffusa, tanto diffusa da apparire quasi incontestabile (Aristotele, Etica nicomechea, 5.1.1129). Ma è anche espressione di rassegnazione.
Sulla natura di queste regole, certo, si sono prodotti dissensi profondi. La giustizia è conformità alla necessità e alla misura naturali, immanenti all’essere e al suo ordine, propria del mondo greco anteriore alla scoperta socratica della coscienza individuale e della libertà morale, non è la giustizia come fedeltà al patto da cui discende la pia osservanza delle leggi date da Dio al popolo eletto; e questa, a sua volta, non è la giustizia romana come insieme di leggi ordinatrici, garantite dalla spada; né questa è la giustizia dell’epoca moderna che, di fronte al disfacimento della legalità imperiale in Europa, ha preteso di ridurre la giustizia al diritto, il diritto alla legge e la legge alla sovrana volontà dello Stato (impersonata da un principe assoluto o da un’assemblea onnipotente, non fa differenza).
In ognuno di questi casi, la giustizia è intesa come conformità alla legge; al singolo è richiesto, perché la giustizia sia fatta, di rispettare la legge. La giustizia si cambia in legalità. Non ci si può tuttavia accontentare di questa riduzione, in nessuna delle sue forme. Innanzitutto, identificare la giustizia con la legalità significa trasferire nostri interrogativi di giustizia sulla legge. La legalità, alle volte, ha poco o nulla a che fare con la giustizia. Inoltre non è affatto detto che la natura sia giusta e giuste ne siano le leggi. Al contrario! Chi la scruta realisticamente e non romanticamente è colpito dalla sua crudeltà e insensatezza. La scoperta, da Socrate in poi, della libertà di coscienza, e cioè della possibilità di diventare legislatori di noi stessi, mira precisamente ad affrancarci dalla necessità naturale e dalle sue leggi.
Perfino le leggi divine possono essere contestate in nome della giustizia... “vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere” (Gn 18,27), dice Abramo nella sua perorazione per la salvezza di Sodoma, ed esclama: “Lungi da te far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lungi da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?” Dunque anche Dio, anzi, Dio per primo, soggiace alla giustizia. Ma anche se assumiamo Dio come necessariamente giusto, e quindi le sue leggi come anch’esse necessariamente giuste, resta grande il problema di come intenderle, di come interpretarle. Necessariamente “secondo giustizia”: ciò però significa, come sanno bene i giuristi, sottoporre il legislatore all’interprete e al suo sentimento di giustizia.
In ogni caso nell’identificazione della giustizia con la legalità c’è comunque una forzatura: giungeremmo a designare l’essere umano giusto come colui che sa solo obbedire, esente da libertà e responsabilità: una negazione della dignità, questa, che può piacere soltanto agli “organizzatori sociali” di tutte le specie politiche che, secondo ragione scientifica o volontarietà arbitraria, possono solo creare formicai umani.
Con un’affermazione in cui si può riconoscere anche chi non crede necessariamente nella giustificazione cristiana, Paolo (Gal 2,16), dice che “dalle opere della legge non verrà mai giustificato alcuno”. Troppo facile, infatti! Troppo facile conformismo! La voce della giustizia chiama invece sì all’osservanza della legge, ma sempre in nome di ciò che supera la legge e di cui essa è espressione. Sopra la legge posta, c’è infatti qualcosa di presupposto ed è là che dobbiamo cercar(n)e la giustizia e la fonte della sua cogenza.






Tratto da Carlo Maria Martini, Gustavo Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Einaudi, Torino 2003

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