SOSTENITORE DELLA FOLGORE

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martedì 12 aprile 2016

Per cosa si vota, quali sono le ragioni del sì e quelle del no, i rischi per l’ambiente e le piattaforme coinvolte. Un vademecum per avvicinarsi al referendum



1. Cosa chiede il referendum?
Il quesito del referendum è il seguente: “Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 ‘Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita’ 2016)‘, limitatamente alle seguenti parole: ‘per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e disalvaguardia ambientale‘?”. In sostanza il prossimo 17 aprile gli italiani saranno chiamati a decidere se permettere i meno ai titolari delle concessioni lo sfruttamento dei giacimenti già presenti all’interno del confine delle 12 miglia dalla costa (nuove concessioni sono infatti già vietate) fino all’esaurimento degli idrocarburi. Questa possibilità è stata introdotta dal Governo nella legge di stabilità 2016, modificando le norme precedenti che prevedevano una durata fissa per le concessioni: 30 anni, prorogabili per altri dieci previa verifica dell’impatto ambientale della piattaforma. Con la vittoria del sì, le piattaforme che sorgono entro 12 miglia dalla costa verrano quindi chiuse allo scadere delle concessioni (e di eventuali proroghe), mentre se il referendum risultasse nullo potranno continuare a estrarre gas e petrolio fino all’esaurimento del giacimento.

2. Perché il limite di 12 miglia dalla costa?
Si tratta di una convenzione introdotta nel 2010 dal “Decreto Prestigiacomo”, approvato subito dopo l’incidente nel Golfo del Messico della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon per la salvaguardia delle coste e la tutela ambientale. Il limite corrisponde al confine delle acque territoriali, la porzione di mare adiacente alla costa su cui uno Stato esercita la propria sovranità territoriale secondo la Convenzione di Montego Bay. I vincoli del 2010 sono poi stati modificati più volte, fino all’ultima versione del governo Monti, che ha ulteriormente ristretto le aree in cui si possono sfruttare i giacimenti, vietando nuove attività di ricerca e estrazione di idrocarburi all’interno delle 12 miglia marine dalla costa in tutte le acque territoriali italiane.

3. Quali sono gli schieramenti?
Per il Sì. A favore del sì troviamo innanzitutto il coordinamento nazionale No Triv, composto da associazioni, comitati e circoli di partito. Accanto a loro ovviamente le nove Regioni che hanno voluto il referendum (Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise,Puglia, Sardegna e Veneto), e le principali associazioni ambientaliste italiane, come Wwf, Greenpeace, Lipu e Marevivo. Sul versante politico invece la situazione è più sfumata. A spendersi per il sì troviamo i 5 Stelle, Sel, Alternativa libera, la Lega di Salvini (con lui è schierato il governatore del Veneto Zaia, alla guida di una delle regioni promotrici), e Forza Italia (che con Giovanni Toti guida un’altra delle regioni promotrici, la Liguria). Nel Pd invece si è verificata una spaccatura. Da un lato Matteo Renzi in qualità di segretario del PD che ha invitato i cittadini all’astensione. Dall’altra nomi importanti come l’ex segretario Bersani, contrari alla linea dell’astensione, e diversi deputati come Roberto Speranza, o il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, schierati apertamente per il sì. Anche a livello sindacale c’è una diversità di opinioni tra organi nazionali, che premono per il sì, e sedi locali più spesso indirizzate al no.

Per il No. Per il no è schierato – oltre al governo Renzi che punta sull’astensione per rendere nulla la consultazione – il comitato Ottimisti e Razionali, composto da professionisti di vari ambiti, e personalità della politica, delle associazioni e del mondo dell’energia, e guidato dall’ex deputato PDS Gianfranco Borghini. Anche l’associazione ambientalista Amici della Terra si è pronunciata contro il referendum, dichiarandolo inutile.Per il no anche i sindacati, che conFelctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil si dicono preoccupati dalle possibili ricadute occupazionali di una vittoria del sì.

4. Quali sono le ragioni dei due schieramenti?
Le ragioni del sì. Per i promotori del referendum, bloccare il rinnovo delle concessioni ha innanzitutto un’importante ragione ambientale. Gli incidenti negli impianti sono sempre possibili, e le conseguenze, pur non paragonabili (per questioni tecniche) a quelle di catastrofi famose come quella della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, sarebbero comunque gravissime. Preoccupano inoltre l’inquinamento(secondo uno studio diffuso da Greenpeace le piattaforme supererebbero spesso i livelli di inquinanti consentiti), e i possibilidanni al turismo nelle regioni coinvolte. Un altro fattore di contrarietà riguarda il concetto di concessione illimitata nel tempo, senza un termine se non quello di esaurimento del giacimento. La ragione principale di chi sostiene l’importanza del voto però è di ordine politico: dare un segnale preciso al governo, indicando la priorità degli investimenti in energie rinnovabili, e la necessità di diminuire lo sfruttamento delle fonti fossili. Una vittoria del sì al referendum avrebbe dunque un altissimo valore simbolico.

Le ragioni del no. Per i contrari invece si tratta di una questione pragmatica: anche puntando ad aumentare gli investimenti in energie rinnovabili, i combustibili fossili rimarranno una risorsa strategica per decenni a venire. Produrli in casa vuol dire spendere, e inquinare, di meno. La quota di gas e petrolio estratti in queste piattaforme, che attualmente è utilizzata per il consumo interno, in caso di vittoria del sì andrebbe comunque importata dall’estero allo scadere delle concessioni, e non potrebbe essere coperta da fonti rinnovabili. Il risultato sarebbero più navi in transito nelle nostre acque e quindi unmaggiore inquinamento, una maggiore dipendenza da fornitori stranieri e l’utilizzo di idrocarburi provenienti da pozzi di cui non possiamo controllare la sicurezza o l’impatto ambientale. La chiusura delle piattaforme inoltre potrebbe avere pesanti ricadute occupazionali per i territori dove sorgono gli impianti di estrazione e di stoccaggio. Per alcuni, infine, si tratta di una questione politica: lastrategia energetica nazionale è una questione di importanza capitale che non si presta ad essere discussa con lo strumento del referendum.

5. Quante trivelle sono coinvolte? Cosa estraggono? In che percentuale contribuiscono al fabbisogno italiano?
Sul territorio italiano sono presenti, stando a quanto dichiarava ilMinistero dello sviluppo economico a fine 2015, 135 piattaforme marine. 92 di esse si trovano entro 12 miglia dalla costa, e 48 sono quelle effettivamente eroganti (qui la lista completa); le concessioni relative a tali piattaforme sono in tutto 35. Il quesito referendario si applica, in particolare, a 21 concessioni: la prima di esse scadrà nel 2018, poi via via tutte le altre fino alla scadenza dell’ultima, nel 2034. Se dovesse vincere il sì, la maggior parte dei 48 impianti eroganti entro le 12 miglia chiuderà tra quindici anni circa; tre di essi, invece, smetteranno di estrarre già nei prossimi cinque anni. Le piattaforme entro le 12 miglia, sempre stando ai dati del Ministero dello sviluppo economico, svolgono per lo più attività di estrazione di metano: nel 2015 hanno contribuito al 28,1% della produzione nazionale di gas e al 10% di quella petrolifera, coprendo una quota dei consumi nazionali rispettivamente per il 3% e per l’1%.

6. Di chi sono gli impianti?
A gestire le piattaforme che rischiano di chiudere è soprattutto l’Eni, azionista di maggioranza di 76 impianti sui 92 totali, mentre la francese Edison ne possiede 15 e l’inglese Rockhopper solo una. Come riporta Il Sole 24 Ore, sono 21 le concessioni che potrebbero essere messe in discussione dal risultato del referendum: una in Veneto (Eni), due in Emilia-Romagna (Eni e Po Valley Op.), una nelle Marche (Apennine Energy), tre in Puglia (Eni, Rockhopper e Petroceltic Italia), cinque in Calabria (2 di Shell Italia, Petroceltic Elsa, Eni, Northern Petroleum Uk), due in Basilicata (Apennine Energy e Transunion Petroleum IT) e sette in Sicilia (Audax energy, Northern Pet. Uk, 2 di Eni-Edison Gas, Petroceltic Elsa-Northern Pet. Uk, Eni, Transunion Pet.).

7. A quanto ammontano le royalties?
Tutte le aziende che estraggono idrocarburi in Italia sono soggette al pagamento allo Stato della cosiddetta aliquota di prodotto, o royalty, una quota del greggio o del gas estratto. Tali royalties sono normate dal Decreto Legislativo del 25 novembre 1996 e dalle successive modifiche apportate con la Legge n. 99 del 23 luglio 2009, che contiene le “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”. Le aliquote previste dalla legge (e deducibili dalle tasse delle compagnie di estrazione) sono del 10% su petrolio e gas estratti a terra e del 7% e 10%, rispettivamente, su petrolio e gas estratti in mare. Tali somme vengono poi ridistribuite a Stato, regioni e comuni interessati dalle attività di estrazione: nel 2012, per esempio, hanno generato entrate pari a circa 333 milioni di euro, di cui 56 sono finiti nelle casse dello Stato, 170 in quelle delle regioni, 27 in quelle dei comuni e 78 nelFondo per la riduzione del prezzo dei carburanti. Si tratta di aliquote particolarmente basse rispetto al resto d’Europa (in Danimarca e Inghilterra, per esempio, le royalties non esistono, ma il prelievo fiscale per le attività di esplorazione e produzione arriva fino al 77% e all’82%, rispettivamente). La legge prevede inoltre l’applicazione di una franchigia: le prime 20mila tonnellate di petrolio prodotte in terraferma, le prime 50mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi standard di gas estratti in terra e i primi 80 milioni di metri cubi standard di gas estratti in mare sono esenti dal pagamento di royalties. Come riporta La Stampa, nel 2015 sono state solo 9 (5 di gas e 4 di petrolio) le concessioni produttive che hanno versato royalties: le altre 17 hanno estratto quantitativi tali da rimanere sotto la franchigia e quindi essere esenti dal pagamento.

8. Quali sono le problematiche ambientali legate al referendum?
La questione ambientale, oltre a quella politica, è uno degli aspetti più discussi del referendum. Al centro del dibattito la tutela dell’ecosistema marino, messo in pericolo non solo da possibiliincidenti e sversamenti in mare di idrocarburi, ma anche dalla normale attività di sfruttamento dei giacimenti. Per quanto riguarda il rischio incidenti, il pericolo che possa verificarsi un evento catastrofico come quello della Deepwater Horizon è piuttosto basso: la maggior parte dei pozzi italiani estrae infatti metano, meno dannoso, e non petrolio, e a profondità molto minori. Secondo un rapporto di Greenpeace “Trivelle fuorilegge“, la normale attività estrattiva delle piattaforme presenti nei nostri mari produce comunque sostanze inquinanti dannose per l’ecosistema e per la salute umana, come idrocarburi policiclici aromatici e metalli pesanti, che si ritrovano in prossimità delle piattaforme offshore. Alcune sostanze sono oltre i limiti fissati per legge, continua Greenpeace, e potrebbero arrivare fino all’essere umano risalendo la catena alimentare. Un report del Wwf, frutto del progetto Medtrends, sottolinea inoltre come le attività estrattive nel Mediterraneo espongano gli ecostistemi marini a una pressione costante: infrastrutture, trivellazioni, prodotti di scarto e inquinamento acustico colpirebbero infatti moltissimi organismi marini, come i ceatacei, ma anche diverse specie di pesci e molluschi, con il rischio di gravi alterazioni del loro comportamento, dell’alimentazione, delle migrazioni e della riproduzione. Tra i pericoli dell’estrazione di idrocarburi viene citato anche il rischio disubsidenza, ovvero dello sprofondamento dei fondali.

9. Le trivellazioni causano terremoti?
Il rischio sismico collegato alla coltivazione degli idrocarburi è una questione su cui si discute da anni. Secondo un rapporto dell’Ispra sul tema, in Italia gli eventi sismici potenzialmente indotti dall’attività umana sono pochi – e solo una parte legata all’attività di estrazione di idrocarburi (quadro riassuntivo a pagina 9 del documento) – e generalmente sono di magnitudo più bassa di quelli naturali. L’unico per il quale è stata ipotizzata una correlazione con le attività di estrazione, correlazione tuttavia smentita dall’Ingv, è il caso del terremoto del 14 dicembre 2014 in Val d’Agri, Basilicata. In tal caso più che all’attività di estrazione la sismicità indotta sembra essere stata collegata ad attività di re-immissione dell’acqua estratta dal giacimento.

10. Il caso dell’ex ministra Guidi è collegato al referendum?
Pochi giorni fa, Federica Guidi, Ministra dello sviluppo economico, si è dimessa in seguito alla pubblicazione di una serie di intercettazioni telefoniche in cui rassicurava il suo compagno Gianluca Gemelli in merito all’inserimento di un emendamento nella Legge di stabilitàche ne avrebbe favorito gli interessi imprenditoriali. In particolare, tale emendamento semplifica di molto la costruzione di tutte le opere connesse alle attività estrattive di gas e petrolio, dichiarandole “strategiche per l’interesse nazionale”, e dà al governo la possibilità di esprimere l’ultima parola su tali opere, eventualmente anche contro il parere di regioni e comuni. In particolare, il tema centrale delle intercettazioni era il sito di Tempa Rossa, un giacimento petrolifero della Basilicata, sulla terraferma. La questione, anche se non direttamente, è comunque collegata al referendum: il quesito del 17 aprile, infatti, è l’unico superstite di una lista che, inizialmente, comprendeva in totale sei domande. Cinque di esse, dopo essere state presentate e accolte dalla Cassazione, sono decadute perché il governo è intervenuto sui temi referendari apportando delle modifiche alla Legge di stabilità (tra cui l’emendamento oggetto delle intercettazioni di Federica Guidi) alla fine del 2015. Il quarto quesito, per l’appunto, riguardava l’articolo 57 del Decreto legge 5/2012, che contiene la “Disposizione per le infrastrutture energetiche strategiche, la metanizzazione del mezzogiorno e in tema di bunkeraggio”. Ma il governo ha giocato d’anticipo e il quesito referendario è stato poi bocciato a gennaio.

Fonte Galileo - Marilina Lince Grassi

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